Il racconto è ispirato a un fatto realmente accaduto nella memoria dell’autore, e risale a quando aveva circa 20 anni; la vicenda si offre al lettore come pretesto e introduzione alla lettura dei contenuti dell’opera e, più in generale, come occasione per riflettere sul momento fondamentale della sua genesi artistica.
Alla luce di questa esperienza, considerabile come un vero e proprio incontro con la Pittura, si potrebbero quindi elaborare alcune considerazioni utili.
Assumendo la pittura come qualcosa di ineffabile, la cui forma -aldilà dell’artificio retorico- può essere soltanto intuita e vissuta come un’esperienza intima e profonda, come si può decidere di poter dipingere? Con che presupposti? E soprattutto, con quale stato d’animo?
È a partire da queste domande che si sviluppa il lavoro di Mattia Ferretti.
Il disegno descritto nel racconto “Dio seduto sopra di me lì piange” costituisce infatti una presa di coscienza sull’impossibilità della Pittura, o meglio la consapevolizzazione che la Pittura non può che essere considerata come un’esperienza non condivisibile.
Quello stupore, quella meraviglia, quell’incanto non possono essere sensazioni riconducibili oggi all’idea della pittura o, per lo meno, non si può credere che questa possa manifestarsi, o solamente possa essere riconosciuta, in qualsiasi sistema costituito di cose.
La pittura, definita come genere, diviene infatti un territorio ascritto a delle regole, si formalizza e finisce quindi per ricondursi unicamente a un’esperienza estetizzante.
Il medium della Pittura però non si può riferire semplicemente alle specificità del suo mezzo, ridurre a un linguaggio o esprimere in un ragionamento, in quanto il suo senso più profondo esula dalla forma. All’infuori del suo significato più comune, con il termine Pittura sarebbe più coscienzioso e scrupoloso invece riferirsi a un incontro fortuito con un’altra entità come qualcosa di disatteso.